La nostra storia

2017 - Ricordando Lodovico Galleni

Giornata di Studi

Pisa, 25 novembre 2017

Giornata di Studi

Pisa, 25 novembre 2017

Intervento della Dott.ssa Rita Bruschi:

 

Rita Bruschi

Silvano Arieti: un riferimento affettivo, intellettuale, spirituale

 

Ho conosciuto Ludovico nel 1997, quando entrambi frequentavamo la Domus Galileana di Pisa, per condurre studi di storia della scienza, lui di biologia ed io di psicologia.

Venuto al corrente della mia formazione, non esitò a mettere in luce l’importanza del contributo offerto nella storia della mia disciplina da un pisano almeno apparentemente caduto nell’oblio da parte della sua città, cioè Silvano Arieti, che lui aveva conosciuto personalmente.

Per quanto Arieti, oltre agli scritti scientifici, avesse pubblicato anche un racconto dell’unica strage nazista avvenuta a Pisa nel ’44, in via Sant’Andrea, e naturalmente questo fosse stato più volte presentato in città, anche dallo stesso Arieti, dopo la sua morte, avvenuta nel 1981, nessuno più si era curato di valorizzare questo autore peraltro così significativo nella psichiatria del Novecento.  

 

Silvano Arieti era nato nel 1914 in via Sant’Andrea, figlio di Ines Bemporad e di Elio, medico di base, come si direbbe oggi, praticamente di fronte alla casa di Giuseppe Pardo Roques, presidente della comunità ebraica cui apparteneva anche la famiglia Arieti.

Seguì le orme del padre e del nonno, si laureò in medicina a pieni voti proprio a ridosso dell’emanazione delle leggi razziali, e individuò nel settore della Clinica delle malattie nervose e mentali, come allora si diceva, il proprio campo di specializzazione.

Giuseppe Ayala, il neurologo con cui si laureò, apprezzando le capacità di questo allievo interessato alle applicazioni della psicoanalisi, giunta in Italia da poco, gli affidò un paziente afflitto tra l’altro da gravose fobie, Pietro Galleni, padre di Ludovico, che divenne così il suo primo paziente.

Quando la famiglia Arieti decise di allontanare dall’Italia i due figli, Silvano e Giulio, indirizzandoli verso gli Stati Uniti, dove risiedevano dei parenti, Pietro Galleni li aiutò a concretizzare questo pericoloso progetto, sfidando i rischi che ciò comportava e superando pertanto le realistiche paure, non patologiche fobie, connesse a tale comportamento.

La denuncia alla polizia fascista per attività politica clandestina, aggravata non poco dall’avere aiutato un medico ebreo a fuggire dall’Italia, finì sul tavolo di un capitano originario di Carrara, dove uno zio di Pietro era stato parroco del Duomo per quasi quarant’anni. In omaggio a Monsignor Galleni il capitano avrebbe stracciato la denuncia e scongiurato la conseguente condanna.

Il Comune di Pisa poi conferì a Pietro Galleni un’onorificenza per aver fatto parte, nell’autunno del ’44, della giunta comunale nominata dal Comitato di Liberazione Nazionale, come rappresentante della Democrazia Cristiana.

 

Naturalmente tutto questo avvenne prima della nascita di Ludovico, che ben riconobbe che l’intervento terapeutico di Arieti non bastò, non poteva bastare, a liberare suo padre dalle proprie difficoltà.

Ma poiché Arieti aveva conservato con Pisa un rapporto costante e ci si recava spesso, c’era spesso occasione di rivedersi anche con Pietro Galleni e coltivare così un rapporto che fu per entrambi complesso e importante, a partire dalla reciproca profonda gratitudine.

Ecco che lo “strano” silenzio che la città, sede Universitaria di prim’ordine, manteneva su Silvano Arieti, alle orecchie di Ludovico suonava come stonato.

Mi sollecitò a considerare l’opportunità di costruire un’occasione pubblica in cui illustrare e riflettere sul ruolo di Arieti nella psichiatria contemporanea e infine nell’ottobre del ’98 si svolse a Pisa un convegno, che superò le nostre migliori aspettative, in termini di partecipazione e di statura degli interventi offerti, in cui la comunità scientifica internazionale rese il dovuto omaggio al pensatore, oltre che al clinico Arieti.[1]

 

Con lui nel tempo Ludovico ha intrattenuto non solo un rapporto affettivo ma ha anche cercato un confronto teorico a partire dai propri studi di biologia evolutiva, sulle intersezioni fra scienza e teologia, e in particolare sull’impatto che le teorie evolutive hanno avuto sulla riflessione teologica.

Una domanda cruciale riguarda il valore adattativo della malattia mentale.

Ludovico ammette di essersi sempre chiesto che senso potessero avere, all’interno del quadro interpretativo della biologia evolutiva, situazioni invalidanti quali ad esempio le fobie, che aveva avuto modo di constatare quotidianamente quanto riducessero la capacità di relazione con il mondo di una persona a lui cara come suo padre.

Trova una risposta nel Parnàs[2] di Arieti, cioè nel resoconto metaforizzato dell’eccidio di via Sant’Andrea a Pisa il 1° agosto del ’44, dove la fobia di fatto inchioda Pardo Roques al suo tragico destino, ma al contempo gli schiude la comprensione del significato di quella sofferenza - il disturbo fobico gli ha impedito di lasciare la città e la casa fino al compiersi di tempi troppo pericolosi - che ha costituito per lui un giogo ma è stata anche tramite di contatto col numinoso, col sacro, con addirittura la shekhinah, la presenza del divino in noi.

Ludovico riflette che forse proprio a causa delle sue difficoltà di relazione col mondo esterno (lavoro, carriera, politica etc.) suo padre ha potuto dedicarsi in modo più compiuto al proprio nucleo familiare. Le situazioni patologiche, per quanto difficili e faticose, non possono dirsi totalmente negative, quando vengono sottoposte  ad uno sguardo più “tondo”.

 

Un’altra domanda approfondisce la questione dal punto di vista etico.

Scrive Ludovico: “… siamo poi così sicuri che le posizioni realmente patologiche non siano quelle di chi imposta il rapporto umano solo sulla base della competizione e della battaglia, e che quindi vi sia maggior adattamento, minore tensione e minore conflittualità, in chi quei rapporti li rifiuta? … Il modello di competizione estrema che pare ormai concernere molti aspetti dell’evoluzione umana, non è solo fonte di tensione e sofferenza fra gli uomini ma è addirittura fonte di un’alterazione, difficilmente controllabile, dell’intera Biosfera.”[3]

Nella sua biblioteca c’è una copia del volume di Arieti The Intrapsychic Self, del 1967, con dedica autografa ai genitori, Pietro e Faustina.

Con questo libro Arieti redige una sintesi del proprio pionieristico studio dell’evoluzione sia ontogenetica che filogenetica dei processi cognitivi e dell’affettività, i loro rapporti reciproci, le loro trasformazioni psicopatologiche e la loro espressione nella creatività. Il suo orientamento evoluzionistico appare chiaro, egli cita ripetutamente i lavori etologici di Tinbergen e Lorenz, pubblicati negli anni Cinquanta, e pone una serie di spunti che potrebbero ben confluire in una teoria etologica del comportamento normale e patologico dell’uomo.

Scrive ad esempio: “tutta la nostra interpretazione della natura ci è imposta dall’origine biologica della nostra cognizione. Inoltre, sembrerebbe che la psiche porti a consapevolezza ciò che era già implicito nella materia vivente”.[4]

La discrepanza fra evoluzione biologica ed evoluzione culturale è evidentemente una fonte potenziale di conflitto: la seconda è avanzata ad un ritmo di gran lunga superiore a quello della prima, pertanto le nostre tendenze comportamentali innate si sviluppano attualmente in un ambiente innaturale.

Ancora Ludovico: “La difficoltà di adeguarsi ad una realtà di fatto sbagliata perché fonte di “malattia” per la Biosfera può concretizzarsi, nelle personalità più sensibili, nel disagio mentale sotto varie forme. Questo disagio è il segno che l’umanità non riesce a costruire la terra secondo criteri, rispettosi degli altri esseri umani e della natura nel suo insieme, che avrebbero dovuto caratterizzare i rapporti fra uomini e fra uomo e natura.”

“La speranza e l’impegno di stabilire rapporti meno violenti tra gli uomini e anche tra l’umanità e la natura forse ci fanno intravedere la prospettiva della liberazione, non solo dalla fame, dalla guerra, dall’ingiustizia, ma anche, almeno in parte, da quell’angoscia esistenziale che è una delle cause della malattia dell’Uomo.”[5]

 

Arricchito dall’intero bagaglio dei propri studi, Ludovico non può non connettere la prospettiva di Teilhard de Chardin di costruire la Terra mantenendo la stabilità della Biosfera e l’integrità della Creazione con la riflessione di Jurgen Moltmann sull’impegno attivo della creatura per costruire una creazione fonte di gioia per il Creatore stesso con, infine, la lettura di Arieti che riconosce all’uomo le capacità di comprendere, di essere autocosciente, di distinguere il bene dal male, di scegliere e volere, di amare, di creare e, in tali capacità, poter rispecchiare in qualche misura l’immagine di Dio.

Il discorso di Arieti sulla psiche si impernia infatti su alcuni precisi capisaldi: 1. L’importanza delle idee come potenti fattori motivazionali 2. L’importanza del continuo sviluppo di ciò che è peculiarmente umano, cioè la capacità simbolica e la creatività 3. La concezione della volontà, intesa come capacità di compiere scelte, come culmine e integrazione di tutte le altre funzioni psicologiche.

La sua teoria della psiche, dall’indagine a tutto tondo sulla schizofrenia, ai disturbi affettivi, allo studio dei processi cognitivi e della creatività, all’approdo infine a una dimensione spirituale mostra come, attraverso il lavoro psichiatrico di tanti anni e l’elaborazione delle proprie basi culturali e dell’appartenenza a un’identità che ha segnato la sua vicenda, egli abbia trovato conferma dell’idea che la patologia, il dolore, costringendoci alla consapevolezza del nostro destino, ci rivelano il senso più profondo della vita psichica.

 

E a questo punto Ludovico, che lucidamente osserva che i dati dell’evoluzione come li conosciamo mostrano un universo che evolve anche con meccanismi che sono fonte di dolore, rimane affascinato dalla lettura dell’ultimo libro di Silvano Arieti, Abramo e la mente contemporanea.[6]

Come era già stato per Freud con Mosè e per Jung con Giobbe, anche per Arieti arriva dunque il momento di confrontarsi con le radici ultime della propria cultura e, proprio l’anno della morte, in questo libro egli ricapitola molti argomenti trattati nei lavori precedenti e affronta direttamente i temi della responsabilità etica, la possibilità di salvezza, il rapporto con Dio.

Abramo viene visto come il primo uomo moderno che dà una risposta di libertà individuale. Egli riconosce l’alterità di un Dio persona che è altro rispetto all’Uomo e alla Natura, ne comprende la proposta di alleanza e la accetta. Per il credente, con Abramo la storia dell’Universo e della vita e dell’Umanità diviene anche storia di alleanza tra Creatore e creatura pensante. Dunque, nell’ottica della storia della salvezza raccontata dalla Bibbia, Abramo costituisce il punto di contatto fra l’evoluzione e la storia umana.

Inoltre Abramo, capostipite di un’umanità segnata anche nel corpo, con la circoncisione, dal suo rapporto con la divinità trascendente, al momento della richiesta divina di immolare il figlio Isacco viene condotto a raggiungere il margine della vita, il senso del fallimento, il tradimento dopo la fiducia, la sconfitta dopo l’impegno, la consapevolezza della morte. Abramo è padre non solo di Isacco ma di un’umanità tutta esposta alla sfida di affondare nel dolore più cieco e di riemergerne a seguito dell’obbedienza e della fedeltà a qualcosa che ci trascende ma sappiamo ci caratterizza e ci definisce.

Arieti di fatto si è occupato per tutta la vita del dolore, cercando di comprenderlo per poterlo affrontare, a partire dai suoi strumenti di conoscenza scientifica e filosofica, di visione etica della vita e di fede religiosa.

A partire da una riflessione sul libro di Giobbe scrive: “Dio sembra intendere che la sofferenza [sia] un ingrediente necessario nel processo della creazione … il dolore è parte della natura, una conseguenza inevitabile delle leggi naturali che reggono il cosmo.” E si chiede se il dolore sia necessario nella natura umana: “La biologia ci insegna che il dolore è una necessità assoluta per l’evoluzione della vita animale.”[7] E, parlando della depressione: “Come il dolore fisico, il dolore mentale ha uno scopo: vuole essere soppresso”[8], perché sopravvivenza ed evoluzione non sarebbero state possibili senza il dolore.

Alla fine della sua vita Ludovico si è confrontato con il tema del dolore in termini serrati e anche, voglio dirlo, struggenti nell’intensità dello sforzo, a cui non rinuncia mai, di distillare una risposta interiore veridica.

“… è Dio che, per comprendere l’uomo e aprire definitivamente a un’alleanza che guarda al futuro, soffre con l’uomo. La sofferenza entra nelle relazioni trinitarie, creando anche per Dio un prima e un dopo. La teologia del dolore di Dio ci fa pensare che Gesù non sia la vittima massima del sacrificio: il Dio di Abramo rifiuta i sacrifici che portano sofferenza, come dimostra la storia di Isacco. E’ dalla croce che il Dio, che nonostante il dolore presente nel mondo continua ad affermare che ci ama e ci è fratello, acquista credibilità.”[9]

 

Colpisce grandemente e perfino commuove rendersi conto di quanto appassionato fosse il colloquio che Ludovico ha intrattenuto negli ultimi anni con il testo di Arieti.

Certamente il valore reciproco è stato altissimo: Arieti salvando suo padre, grazie al quale si è salvato, per iperbole ha reso possibile la sua stessa nascita;  ha scelto una professione di aiuto e l’ha ampliata anche da un punto di vista teorico, giungendo a interrogativi condivisi e suscettibili di risposte condivisibili; ha elaborato una lettura del disagio mentale che non si limita a rivendicare rispetto per il malato ma implica il riconoscimento dell’immenso valore spirituale della sofferenza umana, anche proprio nella declinazione specifica che affliggeva Pietro e Pardo Roques, e sapendo attingere ben oltre le differenze confessionali; lascia nell’ultimo libro una riflessione sul grande patriarca Abramo, primo uomo che accetta la proposta di alleanza lanciata da Dio, e partendo da questo affronta in modo sistematico e creativo il problema dei rapporti fra scienza e teologia, cui Ludovico ha dedicato enormi energie.

 

Il  porre l’uomo al centro di un processo di continuo arricchimento interiore, di elevazione morale e spirituale, una qualità nuova nell’ambito della natura, lo rende responsabile del futuro della creazione: essa è in qualche modo incompiuta e, grazie all’alleanza, l’uomo ha facoltà di collaborare con Dio nel compierla.

Diviene allora fondamentale una riflessione sulla libertà. Scrive Ludovico: “E’ proprio questo l’aspetto che qualifica l’uomo. In fondo l’evoluzione non è altro che una gigantesca marcia verso un comportamento libero.”[10]



[1] Gli Atti del Convegno sono stati pubblicati in: R.Bruschi (a cura di), Uno psichiatra tra due culture. Silvano Arieti 1914-1981. Il senso della psicosi, Pisa, Edizioni Plus, 2001.

[2] S. Arieti, The Parnas, New York, Basic Books, 1979. Trad. it.: Il Parnàs, Pisa, Edizioni ETS, 2012.

[3] L.Galleni, “Ricordi del figlio di un paziente”, in R.Bruschi (a cura di), cit., p.74.

[4] S.Arieti, The Intrapsychic Self: Feeling, Cognition and Creativity in Health and Mental Illness, New York, Basic Books, 1967. Trad. it: Il sé intrapsichico, Torino, Boringhieri, 1969, p.207, corsivo nell’originale.

[5] L. Galleni, cit., p.75 e 78.

[6] S.Arieti, Abraham and the Contemporary Mind, New York, Basic Books, 1981 (non ancora disponibile in italiano).

[7] S. Arieti, The Will to be Human, New York, Quadrangle Books, 1972. Trad. it.: Le vicissitudini del volere, Roma, Il Pensiero Scientifico, 1978, p.210.

[8] S. Arieti, “L’approccio psicoterapeutico alla depressione”, in Psichiatria e oltre, Roma, Il Pensiero Scientifico, 1975, p. 29.

[9] L. Galleni, “Perché tanta sofferenza”, Vita Pastorale, n.2, 2016.

[10] L. Galleni, Abramo e la mente contemporanea: la rilettura della figura di Abramo compiuta da Silvano Arieti, Lugano, alla chiara fonte, 2015, p.20.